bookmark_borderCose più o meno finali

Come al solito, tutto si sgretola così all’improvviso e velocemente che non ne ho tanta voglia, figuriamoci poi una volta già tornato. Negli ultimi momenti ti senti quasi un intruso in quel limbo finale anche un po’ più anomalo per me, perché continuo a entrare da abbonato. Se devi comprare una cosa o interagire con qualcuno devi pensare a quali tesserini hai in tasca in quel momento, o a come sei vestito.

Ieri ad esempio ho fatto una segnalazione positiva per un cast member simpaticissimo in una coda, totalmente da guest e in buona fede perché non lo conoscevo assolutamente, ma sotto falso nome per non creare conflitti di interesse in eventuali indagini su chi l’avesse fatta. Oppure, ci stavo pensando l’altro giorno: che momento è se uno nel backstage guarda la televisione, e la televisione manda lo spot di Disneyland Paris? Dovrebbe aprirsi un buco nero spazio-temporale da paradosso cosmico.

Finisce poi anche che sei quasi un po’ stufo del parco e di quella vita lì, ma a cosa fatte, cosa strana perché dovrebbe avvenire non quando te ne separi ma semmai al quarto giorno consecutivo di lavoro. Una cosa che cambierei del lavoro è che si dovrebbe lavorare un’ora in meno ogni giorno (nota: lì quando si lavora si lavora veramente, quindi qualsiasi trattativa sul tempo di lavoro non è capziosa, ma a quantità corrisponde qualità di quei singoli minuti, è raro potersi “imboscare”), e avere almeno ogni due settimana diritto ai due giorni di riposo consecutivi. Per il resto, gli orari precisi al minuto, ma soprattutto la pianificazione giornaliera, ora per ora, sono la cosa più vicina a come organizzerei io le cose, avvicinandosi quindi all’unica ipotesi di un possibile lavoro “con altri”, almeno da parte mia.

Alla fine forse sei solo un po’ nervoso per gli ultimi giro regalesco-salutesco-burocratici da fare, ovviamente quasi di corsa e con i minuti incastrati minuziosamente. E anche una microscopica ramanzina per un piccolo errore di comunicazione su quando sarei dovuto andare per tagliare il tesserino la vivi male, come se aprisse uno squarcio sulla possibilità che lì non sia sempre tutto rose e fiori. Poi però ti ricordi tutto il resto e chiedi di poter tornare, magari per provare qualcosa di un po’ più lungo, e non le solite due settimane che davvero non fai in tempo a mettere la roba nell’armadio che stai a già pensare alla fine.

bookmark_borderIncontri

I personaggi funzionano. L’ho capito tempo fa vedendomi per forza di cose praticamente ogni giorno la parata, e qualche giorno fa fermandomi a vedere Pluto per una decina di minuti, cercando più che altro di capire quale fosse il suo preconfezionato set di mosse. Era bravo Pluto. Ma soprattutto, l’ho confermato più recentemente dopo aver lavorato per un giorno a Meet Mickey, il vecchio teatro di Fantasyland riadattato un anno fa a spazio di incontri con un certo Mickey Mouse, che se ho ben capito dovrebbe essere una specie di topo.

Funziona così: fai la fila, entri in una stanza dove c’è Mickey Mouse e passi qualche minuto con lui. Casualmente, c’è lì un fotografo professionista che ti fa delle foto, e quelle foto puoi poi vederle dopo poco su degli schermi, e comprarle. Da notare che nessuno ti dice niente se ti fai una foto da solo, né se fai una foto allo schermo che contiene le tue foto, come invece avviene nei parchi di terza categoria.

Se però vuoi comprare la foto, ecco che tre simpatici individui te le fanno vedere su un computer, tu scegli quella che vuoi e la compri. La prima costa cara, 15 euro, ma poi ci sono varie formule e offerte per cui per più foto, o più grandi, con cornice o senza cornice eccetera spendi via via meno.

E la gente le compra, in grande quantità (soprattutto se il fotografato dà un bacino sul naso a Topolino, quella si vende sempre). L’ho potuto costatare con mano in senso letterale perché ogni foto la devi mettere in una cornice (si compra pure quella), cosa non semplicissima che ti fa pensare tutto il tempo perché non esista un sistema automatico per farlo, visto che l’uomo è andato sulla Luna eccetera. C’è però un sistema per cui lo stesso cartoncino che ti serve per far comparire le tue foto, lo puoi usare in tutto li parco o negli hotel in altri punti foto, quindi ristamparle e prenderne altre. In pratica, vendi un’idea.

Il genere insomma tira molto, la mia previsione da qui ai prossimi dieci anni è che un altro punto di incontro dedicato alle principesse, attualmente troppo sacrificato e angusto, si troverà il modo di metterlo nelle immediate vicinanze del Castello, probabilmente sacrificando uno dei negozietti o all’interno, o subito dietro.

bookmark_borderCose nuove imparate in francese

Bacchetta magica si dice baguette magique/lumineux. Uno si ricorda sempre le cose negative che gli capitano, di più, però in questo caso mi ricordo la cosa positiva, cioè averlo scoperto il primo giorno. Ora, mettiamo che qualcuno me l’avesse chiesto prima di scoprirlo: salve, vorrei una baguette.

significa anche qua. Quindi [nome del bambino] vien là non configura il reato di abbandono di minore. Ogni tanto immagino dialoghi surreali: tizia è ? Sì, è . Me la puoi chiamare? No, dicevo che è . Sai se torna ? No, però ora eccola . Ti cerca caio, è . Sul loro impero non tramonta mai il sole.

Robin des Bois è Robin Hood.

Salvadanaio si dice tirelire (?!).

Hop: questa è un po’ la grande novità di quest’anno, anche se probabilmente esisteva anche prima. È una specie di onomatopea in senso stretto, o gesto-pea, perché identifica un movimento di volta in volta diverso ma caratterizzato da una micro-abilità risolutiva. Se si potesse scrivere, avrebbe due “a” piccolissime prima e dopo la “o”, aperta. Se hai le mani occupate dal contenitore del registratore di cassa e uno ti ci mette un coperchio sopra, giusto per fare un esempio a caso, o hai vassoio e uno ti prende un cucchiaino e lo mette dentro la tazzina del caffè, allora si usa questo hop. Meno ad esempio se uno ti tiene una porta aperta per farti passare.

Per farla breve, viene detto al posto di quando ci si aspetterebbe di dire voilà (che a stretto giro dovrebbe peraltro significare guarda là, o guarda qua, cfr. sopra), che comunque pure si usa, e ci mancherebbe.

bookmark_borderAcqua sul fuoco

Ieri ho chiamato i pompieri. In pratica usciva un po’ di fumo da un cestino dei rifiuti, poco lontano dal negozio, mi ha avvisato un’altra cast member di passaggio. Poteva anche benissimo essere un diversivo di una banda di ladri per distrarmi e rubare (ancora più) roba, quindi non ho abbandonato la mia posizione.

Temevo poi che una volta sul posto i pompieri non trovassero niente, e un omaccione mi facesse un qualche rimprovero in dialetto del tipo che non bisogna chiamare per quei casi, bisogna attivare la procedura verde-c-476-bis-comma-7 o chissà che altro. Invece il fumo effettivamente usciva, anche altri guest sono entrati per avvisarmi, ed era bello rassicurarli dicendo che avevo già avvisato i pompieri. Tutto a posto, monsieur.

La verità è che mi piace di più fare queste cose qua: dare indicazioni e spiegazioni, far vedere sulla mappa dove sono e devono andare, quando sono gli spettacoli, consigliare cose limitrofe e piccole astuzie. In questo, molto modestamente, sento di potermela giocare con i migliori; sul far comprare un magnete in più sennò il vostro frigo si sente solo onestamente no.

I pompieri dopo poco sono arrivati (a piedi, in due, sic), hanno preso l’estintore e hanno fatto quello che dovevano fare. Poi mi hanno detto che avrebbero riportato l’estintore dopo poco, con un micro-occhiolino di ringraziamento professionale. Qui siamo oltre le indicazioni di dov’è il ristorante tal dei tali o la toilette: ho alterato in senso positivo lo scorrere degli eventi, salvando potenzialmente vite umane e con interazione telefonica diretta a livello quasi avanzato con professionisti del settore. Ogni tanto mi andavo a rivedere il piccolo laghetto d’acqua che avevano lasciato attorno al cestino. Di gran lunga la miglior cosa successa finora.

bookmark_borderSei in casa

Siamo in sei in casa, tutti maschi. Che poi quella di dividere i maschi e le femmine negli appartamenti mi pare una cattiva politica: nascerebbero più bambini, che verrebbero senz’altro portati nel parco.

Due degli inquilini all’inizio non si vedevano mai. Mi piaceva pensare che fosse come in quel film in cui ci sono quelli che fanno la radio da una nave, e all’improvviso trovano un altro componente del gruppo che non avevano mai visto perché faceva la trasmissione della mattina presto. In realtà sono semplicemente arrivati dopo.

La cosa però che volevo sottolineare è che in sei, con un solo bagno, non l’ho mai trovato occupato. Complici magari anche gli orari super-variabili di tutti, sarebbe però stato un problema trovarlo occupato di mattina. Volevo anche proporre una specie di foglio in cui ognuno avrebbe scritto i propri orari di lavoro, in modo da potersi regolare, ma forse era troppo.

Personalmente, ho deciso quindi di ridurre al minimo il tempo di utilizzo del bagno di mattina, ad esempio facendomi la doccia la sera. Probabilmente anche gli altri fanno così, e si è creato uno di quei meccanismi di altruismo-egoismo-altruismo. Ognuno rinuncia a una piccola comodità (farsi la doccia quando gli pare) per avere maggiori chance di poter avere anche per sé un piccolo vantaggio. Il punto decisivo è che a uno la mattina non gli serve molto il bagno, e non rischia di avere poi poco tempo per potersi fare anche la doccia, proprio perché l’ha già fatta. Altruismo-egoismo-altruismo, ha qualcosa a che fare anche con l’idea di fare le code. Da approfondire.

bookmark_borderCose care

Questo castello costa 37.500 euro, e mi sono informato non vale lo sconto per i dipendenti, che avrebbe tolto buoni 9.000 euro dal prezzo finale, né credo altri sconti. Comunque la cosa rilevante mi pare che non è il Castello di Disneyland Paris, è simile a quello di Walt Disney World, ma non ne è neanche l’esatta copia.

bookmark_borderBonjour

Bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour bonjour.

Che poi non è neanche il bonjour in sé, detto in qualsiasi possibile circostanza e a qualsiasi ora del giorno, ma quella specie di doppio colpettino di testa che fanno soprattutto gli uomini, in quanto maschi alpha del gruppo, per dire che è tutto a posto. Il primo parte già dalla prima “o”, il secondo più o meno sulla “u”. Sorpresomi qualcosa volta a fare anche io il colpettino di testa, ho deciso che non lo farò più.

Questo è il bonjour più secco e generico. Poi c’è quello più per il bambini: bonjooouuur, e una variante del primo con maggiore accento sulla prima “o”, allungandola e “canzonandola” anche appena: bo-onjour.

Ma la questione irrisolta è: bisogna dire bonjour a tutti i membri di una famiglia/gruppo che entra, e au revoir quando esce, o vale anche uno generico? E se però uno è voltato e non sente o vede che stai facendo il colpettino di testa (che comunque implica sempre prima un micro-secondo di contatto visivo), e magari è anche del control qualité? Penso che la risposta a questa domanda sia che bisogna valutare caso per caso, ma a volte ti senti come in un videogioco sparando i vari bonjour singolarmente e sperando che vadano a segno.

Intanto gli inglesi/americani dicono sempre “hi”, più che “hello”, gli spagnoli “hola” (quindi la ragione del dare sempre del tu non è nel calvinismo), e ho scoperto che in svedese si dice “hej” (acca aspirata e l’ultima si legge “i”), uno svedese me l’ha detto perché pensava l’avessi salutato così. In realtà era un “hi” fatto su deduzione di non-francesità da come parlava al figlio. A proposito, tutta un’altra questione è se si possa dare per scontata la nazionalità in base a elementi esterni (tipo – ehm – l’obesità degli americani, o le giacche in più degli italiani), o se si debba presumere una francesità iniziale per tutti, e poi si decide quando si inizia a parlare.

bookmark_borderKaki

Se la Francia decidesse di inviare nuovi soldati in Mali, sono pronto. O se viceversa ci attaccano ad Adventureland, siamo pure a posto. Il mio vestito è kaki, tutto. I pantaloni sono kaki, la camicia è kaki, la giacchetta è kaki, la giacca più pesante (che ora non serve) è kaki. Anche i bottoni sono kaki. All’inizio sembrava ci fosse anche un fazzoletto arancione, ma in realtà non serve. Comunque è comodissimo, perché non ci sono cravatte e cravattini da primi del ‘900, e si può tenere anche il primo bottone slacciato. Inoltre, le giacche permettono di portare con sé spazzolino, dentrificio, deodorante e foglietti vari, senza ripassare dal gira-gira della combinazione dell’armadietto nella pausa pranzo.

Ci sarebbe anche un cappello (kaki). Ci ho pensato se prenderlo, ma intanto praticamente nessuno ce l’ha, perché sarebbe più previsto per l’attrazione di Indiana Jones, e già questo basterebbe. Poi il fatto è che se ti metti anche il cappello a quel punto ti proponi davvero troppo come Indiana Jones, inteso come personaggio – che peraltro neanche esiste nel parco -, senza averne la formazione opportuna. E ci sarebbe anche il sottile problema di doppi, tripli Indiana Jones che girano, seppure non dichiarati. Meglio senza cappello, come se fossi una specie di aiutante, o amico, di Indiana Jones, ma non esattamente lui. Però ho deciso di introdurre la gag che se mi chiedono dov’è Indiana Jones (l’attrazione), rispondo: “eccomi!”.

Vestiti a parte, mi ero quasi dimenticato di quanto fosse divertente lavorare qui, l’atmosfera che c’è, il rispetto millimetrico degli orari, direi quasi gli odori, se non fosse troppo poetico. Il team è fantastico, come spesso accade. Sono organizzati e gentili e ti aiutano in tutto e per tutto, ma credo sia proprio previsto così, come cioè se fosse anche quello un loro compito. In ogni caso, lo realizzano bene.

bookmark_borderRebelle without a cause

Questo nuovo Dreams! (orecchie in vendita da luglio) non mi convince molto. Passi il Re Leone, che ha una musica irresistibile (Hakuna Matata era lì che sembrava essere scritta apposta per questo show), anche se poi a un certo punto il leone piccolo cammina nel vuoto, quando c’era tanto di prato a sinistra da sfruttare per creare una savana, magari includendo anche gli alberi (che sono tagliati quadrati, vabbè, ma tutto è possibile).

Ma Brave, Rebelle, Merida o come accidenti si chiama. Qui praticamente non c’è quasi mai grande integrazione con il Castello o con le tecnologie a disposizione (salvo la freccia, notevole), poche scene sull’acqua, e sembra tutto messo lì come se il Castello fosse solo uno schermo. Quella specie di avvicinamento 3D nella scena iniziale è poi il mio non-preferito momento in assoluto, completamente fuori fuoco rispetto allo spirito un po’ lineare e ah-i-cartoni-di-una-volta di tutto il resto.

Prendete l’amico di Aladino, Gigi Proietti. Lì il Castello “significa” sempre qualcosa, e la scena dei razzi vale da sola biglietto del parco, aereo e hotel con pensione completa. Se avessero eliminato il Genio ci sarebbe stato uno sciopero generale in tutta la Francia (ok, cattivo esempio).

Sto entrando in quel meccanismo di affezionamento irrazionale e partigianeria per la cose? O diventando uno di quei tromboni che dicono “amare” invece di “mi piace” (“ho amato molto quel film”)? Forse sì, e forse è anche che hanno eliminato Mary Poppins, tralaltro l’unico film con umani presente, dove Step in Time è la mia canzone preferita forse in assoluto nella musica in generale.

Il fatto è che Dreams! è un meccanismo talmente perfetto che a un certo punto della storia dell’umanità, quando tutto ormai sembrava già visto, è riuscito a farci dire ancora una volta: “wow!”. E quindi qualsiasi modifica fa scattare mille allarmi, difese e obiezioni, quasi quasi per la paura che poi cambia qua, taglia là, ce lo possano portare via tutto.

bookmark_borderProlongation

Sempre bello arrivare a Parigi, la città che prende il nome da Disneyland Paris. Superato il collo di bottiglia delle procedure iniziali, forse appena più rapide perché questa volta sono arrivato più tardi, senza quindi la calca iniziale (anche noto come Teorema dei Musei Vaticani, o di Big Thunder Mountain), eccomi quindi qui di nuovo a dare il mio contributo per cercare di cambiare di un milionesimo il carattere delle persone.

Residenze quelle belle, e per una clamorosa coincidenza lo stesso coinquilino dell’anno scorso, quindi con tutta una serie di procedure iniziali già oliate, e nuovi discorsi sul parco – con lui che è esperto – da fare.

Dopo vado sul posto per scoprire il mio orario del giorno dopo, che poi sarebbe oggi. Avrei potuto telefonare per scoprirlo, solo che la giornata era ancora lunga, le tariffe alte, la vita breve, ieri era il compleanno del parco e soprattutto ho un abbonamento appena rinnovato, con quindi sei mesi in più gratis (contiene informazione pubblicitaria), da sfruttare.

Non avevo neanche capito bene quale fosse, il posto, perché qui si ragiona a “complex”, cioè più negozietti raggrupati tra loro. In realtà c’erano state informazioni diverse che comunque riconducevano a quel complex (poi ci torneremo), e lì vado, per prendere contatto e scoprire che oggi sarei stato libero (dura la vita).

Per arrivare, e per non dare 2 euro all’autobus per protesta (una vecchia storia: ci rimborsano in parte gli abbonamenti settimanali, ma la settimana non è ancora partita), mi prendo pioggia e grandine che quando arrivo qualcuno avrebbe potuto chiedermi: “ehi, hanno messo un’attrazione acquatica?” “ehi, no, non ci saranno mai attrazioni acquatiche perché hanno preferito fare un parco qui piuttosto che in Spagna, più raggiungibile da londinesi, olandesi e tedeschi, e per non so che accidenti di ragioni legate all’IVA, quindi questa è pioggia”.

La verità è che nonostante tutto volevo anche vedere se ieri, solo ieri, avrebbero concluso Dreams! con la scritta “21” e non “20”. E invece no. Solo per un giorno, e solo per lo spettacolo, perché per il resto è tutto ancora “20”, dato che ufficialmente ora e fino alla fine dell’estate siamo nel ventesimo aniversario “prolongation”.