bookmark_borderBenvenuti al sud

Andando da Londra a Parigi, addirittura sembra di essere passati in un’altra fascia di latitudine sociale, chi l’avrebbe mai detto. D’altra parte di queste cose ci si accorge quando si torna, più che quando si è lì. Se a Londra la percentuale di gente che chiede soldi nella metro (almeno nella Zona 1) tende a essere zero su dieci treni, a Parigi potrebbe essere una su dieci treni, giusto per usare questo indice che denota in un colpo solo problemi sociali e difficoltà nel gestire la sicurezza. Da notare che molto probabilmente si tratta di indipendenti, è solo sopra al quattro su dieci treni che potremmo essere in presenza di un racket che gestisce il tutto, oltre che di un buco nella sicurezza notevole.

Al diavolo tutte le considerazioni sui biglietti dei trasporti poco amichevoli e le linee che si chiamano con i nomi. Londra supera la soglia di funzionalità e vivibilità. Parigi pure. Punto e basta.

Poi devo passare ogni volta per Les Halles, con l’inevitabile foto. I lavori procedono. Ero sicuro di essermi cercato di fissare l’esatto punto in cui avessi fatto la foto l’ultima volta, ma ora non me lo ricordavo. Mi sono anche dimenticato un sacchetto su un’attrazione di Disneyland Paris, recuperato un attimo dopo, ma la cosa mi ha fatto molto riflettere sulle cellule che muoiono e quelle cose lì dell’invecchiamento. Quindi ho fatto una foto da un punto che credo sia simile, questa volta cercando di ricordarmelo per la prossima volta.

A Disneyland sono andato principalmente per Disney Dreams! Fête Noël, quindi con un ingresso un po’ tardivo che mi ha fatto all’inizio pensare di avere fretta, ma poi tanto il parco era mezzo vuoto e si poteva fare tutto senza grandi pianificazioni, che io comunque facevo lo stesso ma solo per vedere che erano giuste. Lo spettacolo è buono, ma Disney Dreams! originale è superiore, almeno per ragioni di sceneggiatura. Qui sembra abbiano ficcato dentro alla rinfusa tutto ciò che riguarda il Natale, per contratto (“cavolo, abbiamo dimenticato Jingle Bells!” “oh no, ci licenzieranno! Presto, mettiamola tra i fiocchi che cadono e l’albero!”).

bookmark_borderAssi nella manica

Il Tunnel sotto la Manica è quanto di meno celebrativo ci sia al mondo. Si entra in una galleria, e quello è. Non ci sono musichette, non ci sono scritte nel treno con la foto dell’inglese e del francese che si danno la mano, né pannelli di annuncio alla stazione tipo “Parigi, h. 13.31. Ma-vi-rendete-conto-che-ci-arriviamo-in-due-ore-passando-sotto-il-mare?” (a proposito, nella stazione c’è tutto un inizio di piccoli materiali di Disneyland, cose che io so si vendono solo nel parco. Gente inglese che ci torna, posto che volendo ci sono anche dei treni diretti, tra i tanti che percorrono la Manica).

Solo una paginetta sulla rivista di bordo che spiega in quale strato di calcare stiamo passando, e un opuscolo con le istruzioni di sicurezza generali, che tra le altre cose dice cosa fare in caso di evacuazione. Tutti ovviamente sperano fortemente che il treno si fermi lì sotto, almeno per un po’, per poi passare al tunnel di servizio e prendere un altro treno, con tante scuse bilingue. Lì si potrebbero vedere un sacco di cartelli speciali, lucine e cose varie, e forse avere anche uno snack gratis, ma questa cosa non succede mai.

Forse, proprio all’uscita, ho intravisto un piccolo muro con scritto qualcosa (tipo: “rispetta il mare, passa sotto-terra”), ma probabilmente era per gli automobilisti. I loro grandi parcheggi però un po’ si vedono. Non c’è invece traccia della Giungla di Calais, che ignorantemente non sapevo fosse stata sgomberata da 4 anni, e in ogni caso dubito si vedesse dal treno.

Il treno in sé è un po’ anni ’80-’90, da alta velocità che ne ha viste tante. L’interno è un po’ squadrato, spigolosetto e grigietto, più efficiente che fashion e tondeggiante come li fanno ora i novellini dell’alta velocità. Scopro poi da Wikipedia, in una momentanea passione sull’argomento, che non si chiama Eurotunnel, ma Tunnel della Manica. Non si è mai chiamato Eurotunnel, che è il nome della società che lo gestisce. Curioso destino della parola “Euro”, che tende a essere appicicata dove non dovrebbe. Come per Euro Disney, che al limite si è anche davvero chiamato così per un paio d’anni, qui neanche.

bookmark_borderI want to ride my bicycle

Appena metti il naso fuori dalla Zona 1 (che già che c’erano potevano chiamare con un nome) ti rendi conto d quanto sia grande questa città, ma giusto un po’, perché più aumenta geograficamente la conoscenza e più aumenta l’ignoranza, perché confini via via con nuovi posti che non conosci.

Diciamo che la misura d’uomo esiste, è quasi un’unità di misura di tempo e di spazio. Coincide a gradi linee con l’idea di poter camminare per 30 minuti (per me 45). Dopo, servono strumenti artificiali per poter raggiungere i posti, che è la cosa tipica delle grandi città: avere posti lontani, e il bello sarebbe poterne fruire. Quindi metropolitane, tram, autobus, come condizione necessaria anche solo per essere considerate tali.

Più che altro, si nota che anche le altre zone sono rette secondo quegli ulteriori princìpi di organizzazione e regole che dovrebbero governare le grandi città. Eh già, perché i due meccanismi che regolano invece l’Italia, ovverosia ignoranza e arroganza, il tutto condito dalla metodologia del “vediamo dopo” (che è comunque figlia di questi due concetti), mal si adattano ai grandi spazi.

E quindi trovi lo stesso parco tenuto bene, lo stesso autobus bello che passa (poi magari non passa, ma il principio ragionevole è che passi, e se passa in tempo più del 95% delle volte si crea una inconscia presunzione di passaggio che ti consente di stare ragionevolmente tranquillo). Puoi vivere la vita al 100% (cosa forse anche noiosa, l’ideale sarebbe al 95%), ma non all’80% come siamo condannati a fare noi in Italia (specie nelle presunte grandi città), con l’aggravante del semi-sequestro di persona per la questione dei trasporti, e del completo sequestro di persona per le persone con disabilità, che invece la vivono al 20%.

Le biciclette. Vedi fiumi di ciclisti, che quasi sono le macchine a dover stare attente. Qualcuno a un certo punto è riuscito a decidere che sì, si poteva pedalare a Londra. Evidentemente, in un calcolo collettivo di costi e opportunità sanno che possono riportare a casa la pelle.

bookmark_borderNon capirci un tubo

Mi sono parzialmente riconciliato con i trasporti pubblici di Londra, dopo che l’ultima volta avevo pagato la tariffa massima per non aver timbrato il biglietto in uscita. Per timbrare si intende passare la carta magnetica in posti nascostissimi, dove peraltro quasi nessuno la passa perché si sono dottorati in analisi numerica e hanno capito quale abbonamento scegliere.

Questa volta ho capito, ho chiesto, ho verificato, però resta comunque tutto abbastanza poco amichevole, a cominciare dall’imperdonabile scelta di chiamare le linee con dei nomi (comodo, per i giapponesi), fermo restando che ci sono anche i colori, ma non hanno senso se le linee diventano molte, perché i colori tendono a somigliarsi (“prendi l’azzurra, poi cambia con la blu”).

Sugli autobus, che peraltro costano meno, nientissimo da dire. Mi piace quando si infilano in quelle stradine dove semplicemente è previsto che possano passare, anche se di poco, e quindi ci passano, senza imprevisti solo italici di cose sporgenti tipo auto o altri arredi urbani abbandonati.

Però tutta la questione dei trasporti mi fa interrogare sul perché centinaia di migliaia di persone vengano qui, intendo con prospettive di semi-stabilità ben consolidate nell’espressione “andare a Londra”. È la cosa più simile a New York che ci sia in Europa, va bene, però ti ciucci tutto quello che guadagni in trasporti (e mangiare), no? O forse i salari sono veramente molto alti ed evidentemente ce la fai.

Oppure vengono proprio perché ci sono già altre centinaia di migliaia di italiani che parlano dialetti incomprensibili e sono vestiti da italiani a Londra, ovverosia con un cappello di lanetta che ricasca un po’ all’indietro e pantaloni aderenti in basso? Questa, semmai, mi pare un’aggravante.

bookmark_borderCalma olimpica

Non è a prima vista chiaro cosa stia succedendo al Parco Olimpico di Londra. C’è tutta un’aria di rinnovamento, che in alcuni casi sembrano cantieri nuovi, ma invece pare di no, è proprio che stanno rimettendo mano un po’ su tutto. Uno tende a fidarsi degli inglesi e dei loro lavori pubblici, e quindi è probabile che sia giusto così, semplicemente bisogna rimodulare il posto da evento concentrato in 17 giorni a luogo più stabile, nel 2014.

Però, certo, può essere un po’ deludente non riuscire neanche ad avvicinarsi più di tanto allo Stadio Olimpico, non poter salire sulla torre né entrare in nessun altro impianto, salvo una scatoletta dove credo facessero il tennis tavolo.

Il posto comunque merita sicuramente una visita, almeno secondo me, anche perché unisce la mia passione per le Olimpiadi e curiosità per i centri commerciali. Lì accanto ce n’è uno che effettivamente ci si deve passare quasi obbligatoriamente per andare ai “campi”. È uno delle decine di “centro commerciale più grande d’Europa” che aprono settimanalmente in Europa, con la differenza che in questo caso è possibile che lo sia davvero. Qui tutto funziona a pieno ritmo, anche qualcosa in più.

La cosa divertente (che in realtà si inserisce in un discorso più ampio di dove è tutto questo posto, cioè in un quartiere pre-esistente anche abbastanza vicino e tutto attorno alla zona olimpica, che è appunto talmente grande da confinare necessariamente con altre cose) è che c’è un altro centro commerciale, evidentemente pre-esistente ma più poverino dello scintillante nuovo olimpico. Qui ci sono anche delle bancarelle di fiori in mezzo ai corridoi, e i vestiti a 5£.

Però non è che tutti vanno nell’altro, anzi per il teorema del Parc Astérix sfrutta l’indotto di una cosa iper-galattica che ti apre accanto.

bookmark_borderAlcune cose sulle Olimpiadi, con i Giochi ancora in corso

Devo rivedere almeno un altro paio di volte la Cerimonia d’apertura.

Per il resto, a futura memoria, noto un certo contrasto tra l’importanza dell’evento, e quanto se ne parla, e la quasi impossibilità di vederlo.

La Rai fa vedere quantitativamente il 5%, e qualitativamente l’1%. Tutti hanno pensato: ah, tanto le fa anche la Rai, ma nessuno poteva prevedere che sarebbe andata così, nessuno si era andato a vedere il numero delle ore, anche se con un canale solo era prevedibile, ma forse segretamente si sperava che l’ossessione pigra di far veder e soltanto gli “italianingara” fosse un po’ attenuata. Con Sky da quel poco che ho visto va meglio, anche lì c’è abbastanza il criterio degli italianingara ma con 12 canali si riesce comunque a vedere molto atro. Il paradosso però è che per vedere Sky devi avere un televisore, e se hai un televisore devi pagare il canone Rai.

Ormai è andata così, la Rai ha preso quelle ore, forse per una questione di diritti obbligatori minimi delle televisioni nazionali, ma l’altro paradosso è che con il criterio di far vedere solo gli “italianingara” riesca lo stesso a vivacchiare, perché forse è quello che la gente vuole (viene omesso il dibattito sul fatto che lo vuole perché è l’unica cosa che viene mostrata). Non mi sembra che la gente si stracci le vesti per questo, o si formino grandi code nei bar che hanno Sky.

Ti ritrovi poi a cercare incastri impossibili di italiani e non-italiani in gara per capire cosa alla fine verrà fatto vedere. Ma anche quando è mezzanotte, e gli unici “italianingara” sono quelli del beach volley, interrompono decine di volte la diretta con collegamenti dallo studio. L’unica spiegazione è che ci sia un problema di diritti, cosa vera per alcune dirette, ma mi sembra strano che una volta che l’evento viene trasmesso, non possa essere trasmesso tutto.

Alla fine della fiera, ne viene fuori un po’ di pessimismo in contrasto con la modernità dell’evento e anche degli strumenti per raccontarlo, che pure a loro volta vengono utilizzati per lo più per alimentare tutto questo. Sposto di 50 anni il pronostico sulla fine delle religioni e dei nazionalismi e di 25 anni quello sulla fine del divieto di sosta a Roma.

bookmark_borderI cinque segni

Sul sito delle Olimpiadi c’è una sezione dedicata al linguaggio dei segni, con diverse parti tradotte in questo modo.

Che poi viene da chiedersi che se uno è sordo non dovrebbe avere problemi a leggere il sito, però credo faccia parte di quella logica di coprire il 100% delle le situazioni possibili, costi quel che costi.

E questo ci porta a parlare di Disneyland… no, questa volta no, però vedere le Olimpiadi come se fossero un parco divertimenti (non solo il Villaggio Olimpico inteso come luogo chiuso e protetto, ma anche i terreni di gioco, e i luoghi delle gare, e per quanto possibile anche sbirciare quanto cambi la città in quei giorni) può essere un taglio interessante.