Documentare

A Internazionale a Ferrara vado a vedere praticamente solo i documentari, non so bene perché, forse perché li considero un prodotto finito, riuscito (quasi sempre), mentre per le conferenze tendo a pensare al teorema delle conferenze, quello per cui se a uno interessa un argomento non ha certo bisogno di sentire una ulteriore conferenza su cose che già sa (le persone tendono a dire sempre le stesse cose), mentre se a uno non interessa, non ci va e basta. Più o meno è sempre così, salvo alcune zone intermedie per cui può effettivamente avere senso andare a una conferenza.

E le conferenze si identificano anche un po’ con quelli fatti a forma di persone che vanno alla conferenze (che già di per sé sono una buona parte della motivazione per non andare alla conferenze. Anche quelli che vanno ai documentari sono un po’ così, ma lì è più buio). Li vedi già sul treno, giovani di belle speranze e alla moda nel non essere alla moda che dicono la parola “progetto” almeno due volte al giorno, e che ci credono – ancora – nonostante il 90% delle conferenze, dietro a quei “Come cambia il ruolo di”, abbia come sottotesto implicito “Il giornalismo è finito. Basta. Si chiude”.

Non è poi raro sentire qualcuno, soprattutto signore un po’ attempate che vogliono essere rassicurate sentendosi raccontare cose che pensano già, dire “vado a sentire [che dice] [nome del relatore/la nome della relatrice]”. Se il giornalismo è un momento di potere (e l’imprenditoria è un luogo di potere), il potere deve essere sempre identificato con qualche persona fisica.

In un mercato in cui pochi ce la fanno, quei pochi diventano superstar, e i molti che concorrono diventano più aggressivi, come un cinquantenne in un locale di salsa, con quella sottotraccia antipatica in cui ognuno si sente più intelligente dell’altro. Qui poi la posta in gioco è altissima, essendo Internazionale un luogo di lavoro quasi mistico (molti però forse non sanno che si trova in uno degli incroci più trafficati di Roma, e quindi del mondo).

Per il resto, mi piace notare cose collaterali organizzative, anche per vedere come cambiano negli anni (poco, pochissimo, perché se ritieni di avere un pubblico intelligente, devi far vedere che non cambi mai). È divertente notare i punti di contatto tra il voler fare cose non all’italiana, ma poi scontrarsi con la loro applicazione pratica fatta da italiani, seppure da italiani che in quel contesto cercano di fare le cose non all’italiana (giusto un esempio, l’irresistibile aggiunta di foglietti estemporanei per variazioni o cose varie). A volte penso al festival come un parco divertimenti, fatto solo di spettacoli, e di fronte a una fila penso che potrebbero far uscire, che so, Gad Lerner per intrattenere gli ospiti in coda.

Infine bisogna sempre dire che Ferrara è una città bellissima, e spesso sottovalutata. Lo avevo dimenticato prima.

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